Le squadre multimilionarie come il PSG o il City, a dispetto delle grandi somme che investono, non riescono a vincere con la facilità che ci si aspetterebbe, specialmente nelle coppe europee.
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La clamorosa sconfitta di Monaco ha reso più palese che mai un grande problema del Paris Saint-Germain di questa stagione: una squadra che, a dispetto della rosa di altissimo livello (reduce da una finale di Champions League) e del campionato non troppo competitivo, sta faticando molto e, anzi, si trova alla sua peggiore partenza dall’arrivo della proprietà qatariota.
Thomas Tuchel è sulla graticola, dopo che già aveva accusato la società per lo scarso mercato (nonostante cinque nuovi arrivi e 61 milioni spesi). Ma la storia del PSG non è una novità, anzi le sue difficoltà ricordiano quelle di altre squadre multimilionarie ma che faticano a convincere completamente, come ad esempio il Manchester City.
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Squadre multimilionarie e allenatori
Dai tempi del Dortmund, quando era considerato uno dei migliori allenatori al mondo, Tuchel ha vissuto un’involuzione mediatica impressionante: in queste tre stagioni a Parigi, è stato quasi sempre criticato, accusato di non aver saputo dare continuità di gioco alla squadra e a un certo punto si è arrivati a dire che non avesse alcun potere nello spogliatoio e che fossero i giocatori a decidere la formazione. Questo, nonostante i titoli non siano mancati: cinque trofei, tra cui due campionati, e ovviamente la finale di Champions.
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Nulla di nuovo, purtroppo: prima di lui, al PSG c’era Unai Emery, uno dei più quotati allenatori dell’epoca; ma in Francia affrontò le stesse difficoltà, e la sua immagine ne uscì distrutta. Le squadre multimilionarie rivelano infatti l’inusuale talento nel triturare gli allenatori: anche Guardiola, negli scorsi mesi, ha affrontato durissime critiche al City, venendo trattato quasi come un perdente; e prima di lui i Citizens avevano demolito la carriera di Manuel Pellegrini (che da allora ha allenato in Cina, poi al West Ham e ora al Betis) e di Roberto Mancini (che, dopo Turchia, Russia e il flop all’Inter, si sta riprendendo solo ora in Nazionale).
Aggiungiamo un nome al terzetto nero di questi club: il Chelsea. Nel 2008, la società di Abramovich assunse Luis Felipe Scolari, campione del mondo che, dopo la panchina del Portogallo, aveva ormai una solida credibilità da allenatore in Europa; ma Felipão durò pochi mesi, dopo i quali la sua carriera dovette ripartire dall’Uzbekistan, senza più mettere piede nel Vecchio Continente. Anche un astro nascente come Villas-Boas venne completamente demolito dopo nemmeno una stagione ai Blues.
Un problema di status calcistico
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Le cosiddette squadre multimilionarie si portano dietro un problema insito nella loro stessa natura: potere spendere tanti soldi sul mercato, le rende immediatamente papabili per dominare a livello internazionale. I risultati domestici vanno bene fino a un certo punto: sei trofei in meno di quattro stagioni non sono bastati a Mourinho per evitare l’esonero al Chelsea. Ai Blues ci sono voluti nove anni prima di vincere una coppa europea, grazie all’eroe per caso Roberto Di Matteo, poi finito anche lui nel tritacarne londinese.
Non si tratta poi di squadre con una tradizione non solidissima tra i top club mondiali. L’aristocrazia – anche mediatica – del calcio le percepisce sempre come dei parvenu, che prima o poi spariranno. Non passa mese senza che sulle prime pagine dei giornali si leggano nuove indiscrezioni sui prossimi trasferimenti di Neymar e Mbappé, cosa che non succede ad esempio con i campioni del Bayern o del Real (e, quando le cose andavano meglio, nemmeno a quelli del Barça).
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È come se il PSG non venisse considerato al pari delle grandi d’Europa, ma piuttosto come una sorta di parcheggio di campioni, quasi allo stesso modo di un club cinese. Questa sensazione che le squadre multimilionarie siano in fondo delle comparse nella storia del calcio ha certamente un suo fondamento storico, se pensiamo a quanti club ricchissimi siano apparsi in questi anni, durando giusto un paio di sessioni mercato: Malaga, Monaco, Anzhi.
La necessità di un progetto tattico
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È indubbio che allenare squadre del genere comporti un forte stress dovuto alle pesanti aspettative che le circondano. Ma il lavoro è reso ancora più difficile da rose che si gonfiano di figurine spesso senza un chiaro progetto tattico dietro, frutto della fantasia umorale del proprietario. Il PSG, per esempio, può vantare una grande abbondanza offensiva, ma ha una panchina molto più corta tra i difensori.
Ma le stesse difficoltà le ritroviamo appunto anche al Manchester City, che pure dall’arrivo di Guardiola ha scelto una precisa impostazione tattica. L’aspetto della tradizione del club, continua a sembrare determinante: ricchissimo e spendaccione, il Real Madrid di Florentino Perez ha conquistato quattro Champions League (e 18 titoli complessivi) nell’ultimo decennio, e le ultime tre sono nate quasi per caso, con la scommessa Zidane.
Non esiste una risposta univoca alla domanda da cui nasce questo articolo. Le squadre multimilionarie come il PSG si ritrovano a essere dipendenti dall’immissione di denaro dall’esterno per risolvere ogni problema: quando le cose non vanno bene, si acquistano giocatori più forti. Spendere diventa l’alternativa più comoda a un lavoro serio e ragionato sul lungo periodo; in questo modo, si agisce solo sulla superficie, e non in profondità. Così, quando i fondi dimuiscono, si rischia di scoprirsi incapaci di reggersi sulle proprie gambe.
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