Osimhen, intervistato da Repubblica, ha parlato del razzismo verso i giocatori africani, dicendo anche alcune cose non del tutto intuitive.
Parlare di razzismo nel calcio è sempre necessario, parlarne in maniera non banale e retorica è sempre difficile. Ecco perché diventa ancora più importante dare voce a chi il razzismo lo subisce, negli stadi così come fuori, e provare ad ascoltare il suo punto di vista.
Victor Osimhen è una di queste persone, dato che anche solo in questa stagione ha già subito diverse volte delle discriminazioni in campo, ad esempio durante Fiorentina-Napoli e poi, di nuovo, durante Roma-Napoli. Del razzismo, sotto diversi punti di vista, è tornato a parlare oggi in un’intervista molto interessante pubblicata da Repubblica.
D’altronde, era sullo stesso quotidiano che l’attaccante nigeriano si era presentato con la sua prima intervista all’arrivo in Serie A, nell’agosto 2020, e anche all’epoca il razzismo era stato un tema centrale. “Ero un po’ scettico sull’Italia e sulla situazione del razzismo nel vostro paese. Ma poi ho visitato la città di Napoli, ho parlato con il presidente e l’allenatore, mi sono tranquillizzato” aveva detto quasi due anni fa.
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Cos’è il razzismo, secondo Osimhen
Nella nuova intervista rilasciata al quotidiano, Osimhen mette in luce un altro aspetto del razzismo in Europa che spesso viene sottovalutato: una forma di discriminazione indiretta, che finisce per rivelare le radici di una cultura che guarda agli africani in maniera spesso macchiettistica e stereotipata.
L’attaccante del Napoli si è infatti lamentato di come gli si chieda sempre qualcosa sulla sua infanzia difficile a Lagos: “Non ne posso più. L’ho già detto mille volte. Lo sanno tutti che appena vedo bambini vendere acqua ai semafori non provo né antipatia né insofferenza. Non potrei. Ma basta raccontare i giocatori africani solo come vittime, come storie tristi“.
È una prospettiva non semplice da adottare, per noi occidentali bianchi, che spesso anche per prendere le distanze da atteggiamenti discriminatori siamo portati a ridurre l’Africa (un continente enorme e variegato, che troppo di frequente trattiamo come se fosse un’unica grande nazione) a dei cliché. “Sono stato un bambino povero? Sì, ma ora sono qualcosa di più. Altrimenti mi inchiodate a un passato che non rinnego, ma che non tiene conto di come sono andato avanti” continua Osimhen.
Questo discorso richiede, da parte nostra, un ulteriore passo avanti nella consapevolezza del problema razziale: comprendere che, accanto al razzismo esplicito e più disgustoso, ne esiste un altro indiretto e involontario. Ad esempio quello che, da tifosi e analisti di calcio, ci porta a descrivere i calciatori neri principalmente in base alle loro qualità fisiche e atletiche, ignorando o mettendo in secondo piano quelle tecniche e perpetrando uno stereotipo dei neri come individui “da fatica” e non “da intelletto” o creatività .
Un luogo comune che affonda le sue radici nel pensiero schiavista, e che ci rende impossibile apprezzare in pieno le abilità di giocatori tecnicamente e tatticamente superbi come Yaya Touré, Seydou Keita o lo stesso Osimhen.
Ciò di cui parla la punta del Napoli è la necessità di decolonizzare il nostro immaginario sull’Africa, superando alcuni fastidiosi stereotipi che magari abbiamo fatto nostri in buona fede. Atteggiamenti propri del cosiddetto white saviourism – sovente denunciato dalle attiviste e dagli attivisti antirazzisti che abbiamo la possibilità di seguire attraverso i social – che ci portano a guardare le popolazioni africane sotto una lente paternalista che appiattisce gli individui.
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