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Fede, speranza, preghiera. Emmanuel Agyemang-Badu non è un pastore religioso ma un calciatore professionista. Uno di quelli cui i soldi e una vita agiata non mancano. Uomo prima che giocatore, messo a dura prova da alcuni avvenimenti negativi destinati a segnarne indelebilmente l’esistenza. Il centrocampista in forza all’Hellas Verona aveva da poco ritrovato il campo, quell’indescrivibile sensazione di tornare a respirare il profumo dell’erba, prima che il Coronavirus irrompesse nelle nostre vite e mettesse in pausa la sua corsa verso il pieno recupero.

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Quel mancato, ultimo saluto

Nulla in confronto al dolore provocato dalla tragica scomparsa della sorella Hagar, assassinata a Berekum (Ghana), città d’origine del classe 1990. I calciatori provenienti dal continente africano infatti, nonostante la possibilità di trasferirsi in Europa e il conseguente ritorno in termini di notorietà e benessere economico, sono soliti continuare a vivere distanti dalle famiglie che spesso decidono di non seguire i propri cari nel loro lavoro. Come già accaduto più volte in passato, questi diventano oggetto delle pericolose attenzioni di bande locali dedite ai rapimenti o peggio ancora a brutali assassini a seguito di tentativi di rapina.

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Nel 2012 Christian Obodo venne rapito, salvo poi riuscire a liberarsi nel giro di 48 ore. Un episodio che scosse molto l’opinione pubblica dell’epoca, mettendo alla luce uno dei problemi che più affliggono i calciatori africani: la loro sicurezza e quella dei propri familiari. Lo scorso 20 marzo è toccato a Badu piangere la morte della sorella, quando in Italia erano già scattate le misure restrittive volute dal Governo per contenere il diffondersi dell’epidemia. Particolare non da poco che non gli ha permesso di rientrare in Ghana per partecipare alle esequie, mentre il nostro paese contava le prime migliaia di morti ai quali non veniva concesso l’ultimo saluto. Due facce della stessa, triste, medaglia.

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Badu, cuore e polmoni

L’Hellas Verona aveva scommesso su un giocatore che appariva un po’ in declino dopo le positive stagioni disputate con l’Udinese, intervallate dall’esperienza in Turchia con il Bursaspor. I ripetuti infortuni patiti al ginocchio avevano privato Badu della fisicità e esplosività che erano caratteristiche peculiari del suo gioco, ma non certo della forza caratteriale di reagire ai momenti negativi che nella carriera di un calciatore sono evidentemente da mettere in preventivo.

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In Friuli l’avevano salutato concedendogli la passerella d’onore con la fascia di capitano al braccio nell’ultima vittoriosa partita dello scorso campionato, prima che in Veneto imparassero ad apprezzarne le qualità umane già dal ritiro estivo. Spirito guerriero e polmoni d’acciaio. Gli stessi messi a dura prova da una grave embolia che aveva rischiato di affossarlo per sempre, se non fosse stato per il pronto intervento dei medici. 

“Il 2019 e il 2020 sono stati gli anni più difficili della mia vita. Ad agosto sono quasi morto, ho avuto molti infortuni e poi ho perso mia sorella in un modo così doloroso” – ha dichiarato in un’intervista concessa alla BBC – sfoggiando una lucidità sbalorditiva agli occhi della gente comune. Fin troppo facile affermare come dalla storia di Badu dovremmo essere in grado di trarre i necessari insegnamenti per affrontare al meglio quello che ci attende nei prossimi mesi, quando anche continuare ad indossare una mascherina potrebbe rappresentare un problema insormontabile.

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Negli ultimi mesi contrassegnati dal dolore nelle quali anche il calcio ovviamente è stato costretto a fare la sua parte, una storia simile deve soprattutto infondere forza e speranza in un futuro oggi più che mai indecifrabile.

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