Simone Zaza è sparito dal mondo del calcio senza ritirarsi, scomparendo senza far rumore sperando che nessuno ricordi quella rincorsa in Francia.
Una rincorsa strana, inesatta, forse anche un po’ ridicola. Questa è l’immagine che ai più ricorda Simone Zaza, meteora del nostro campionato disciolto nella memoria di un internet che non perdona errori simili e genera un turbine di scherno capace di rendere quel momento della carriera di un calciatore l’unico degno di memoria. Di Simone Zaza alla fine si ricorda quel rigore, quella rincorsa, quella palla spedita forse nella stratosfera del cielo francese, e difficilmente oggi – a due anni dalla sua ultima partita ufficiale – si parla di lui per l’anno a Sassuolo o per lo scudetto vinto con la Juventus. Il buco nero di quella rincorsa è stato talmente forte da spazzare via tutto, sia ciò che Zaza è stato prima di quel rigore – e quindi i meriti che lo hanno portato in Nazionale – sia ciò che Zaza è stato dopo quel rigore.
Facendo ordine nella sua carriera, Zaza si è affacciato al calcio dei grandi in Serie B con l’Ascoli, dove a vent’anni segnò diciotto reti in trentasei partite, facendo si che il Sassuolo puntasse su di lui per l’anno successivo. I dodici gol segnati in Serie A lo resero appetibile per la Juventus che investì diciotto milioni sul suo cartellino e lo portò a Torino con risultati altalenanti. Otto gol in ventiquattro partite non furono abbastanza per diventare il titolare di una Juventus che stava puntando alla Champions League, ma sufficienti per renderlo parte integrante di un gruppo che vinse Super Coppa Italiana, Coppa Italia e Scudetto, anche grazie al gol segnato proprio da Simone contro il Napoli.
La rincorsa, anche qui, prosegue ineguale: benissimo con l’Ascoli, bene con il Sassuolo, difficile giudicarlo con la Juventus, dove il peso di un ambiente forse troppo grande per le aspettative che c’erano su di lui ha schiacciato il talento del ragazzo di Policoro. L’estate in cui da l’addio alla Juventus è anche il momento in cui la sua carriera prende un bivio che poi altro non è che l’elefante nella stanza di questo articolo. Si può fingere di non volerlo vedere, di puntare lo sguardo lontano da quella sera di luglio, ma ogni momento precedente e successivo della carriera di Zaza converge sul dischetto dello Stadio Matmut-Atlantique, casa del Bordeaux e capolinea dell’ascesa calcistica del centravanti.
É triste quando tutta la vita professionale di un essere umano converge in un singolo momento, e ad esso viene ridotta, qualsiasi sia l’altezza a cui poteva ambire. É triste perché non tiene conto di ciò che c’è stato prima, né di quello che sarebbe potuto essere dopo, se quel momento fosse andato in modo diverso. Si potrebbe parlare di predestinazione, o di talento non sufficiente, di attitudine sbagliata o di mancanza di lucidità, ma qualsiasi sia la spiegazione che cerchiamo di darci, il giudizio incombe quasi fosse un presagio oscuro della fine anticipata di qualcosa di bello.
La strada che Zaza aveva percorso fino al due luglio 2016 lo aveva reso parte della rosa di un Europeo incredibile, durante il quale Antonio Conte stava compiendo un autentico miracolo portando una nazionale in evidente difficoltà a giocarsi i quarti di finale contro campioni del mondo della Germania. Il match, terminato ai rigori, sarà il manifesto dell’Italia del tecnico ex Juventus: tosta, atleticamente preparata ma mancante forse di quel talento necessario a far girare a proprio favore i momenti decisivi di una gara. E così che nella lotteria dei rigori questa lacuna si allarga, divenendo un baratro per le carriere di chi già prima della spedizione era stato oggetto di dubbi riguardo le proprie qualità. L’errore di Pelle è ad esempio l’ultima cosa che ci ricordiamo della sua meteorica presenza nel calcio italiano, così come la rincorsa di Zaza prima di spedire la palla nella stratosfera lo ha bollato di fatto come infantile, inadatto, superficiale, tutti aggettivi che non gli si addicevano, come dimostrato dall’ascesa compiuta negli anni precedenti a quel luglio 2016.
Simone Zaza si è disciolto in se stesso
Dopo quel rigore, quanto accaduto alla carriera di Simone Zaza non è più importante, almeno per la massa di tifosi che gli imputano parte della responsabilità per un’eliminazione che forse sarebbe arrivata ugualmente. Non importa a nessuno che in una stagione al Valencia abbia segnato tredici reti diventando il terzo miglior marcatore italiano della Liga – dietro a Pepito Rossi e Christian Vieri – o che con quelle reti abbia aiutato il Valencia a conquistare un posto in Champions League, non importa più che al suo ritorno a Torino gli spalti granata fossero entusiasti dell’investimento di Cairo e non importa più che nella stagione del Covid Zaza abbia segnato nove gol in trentuno gare, fornendo cinque assist e contribuendo alla salvezza dei granata.
Non è importato più a nessuno di Zaza come calciatore, utilizzando nella demolizione della sua immagine anche la vita privata come motivo del perché abbia sbagliato quel rigore. Oggi Simone è svincolato dall’estate 2022, quando ha lasciato il Torino dopo aver risolto il contratto con il presidente Cairo, è diventato papà e non ha trovato l’accordo per tornare a giocare in Serie B, al Bari del direttore sportivo Ciro Polito. La sua è stata una rincorsa che non ha trovato compimento, un passo dopo l’altro per arrivare al momento che avrebbe vanificato tutti gli sforzi precedenti. L’errore del quale siamo un po’ tutti colpevoli non è quello sul dischetto dello stadio di Bordeaux, ma l’aver pensato che una rincorsa inesatta fosse l’unico elemento attraverso il quale giudicare un ragazzo che di quel momento forse non si è mai liberato.
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