Il Grande Torino scompariva esattamente 75 anni fa, nella tragedia di Superga: perché è diventata una squadra così mitica nella storia italiana?
Il tempo diventa mito, e il mito è sempre una semplificazione. A 75 anni dall’incidente che, poco dopo le 17.00 del 4 maggio 1949, segnò la drammatica fine del Grande Torino, il ricordo della squadra granata è ormai saldamente consegnato al mito, con il rischio che si perda la dimensione storica e sociale di quella che è stata una squadra unica – forse la squadra simbolicamente più importante dell’intera storia del calcio italiano – sotto diversi aspetti. Quello sportivo è decisamente il più trattato, ma troppo spesso si sottovaluta ciò che il Grande Torino rappresentò per l’Italia della seconda metà degli anni Quaranta.
Il paese veniva da circa vent’anni di regime criminale e liberticida, e da quasi due anni di guerra entro i propri confini. C’erano circa 1,3 milioni di reduci, molti dei quali mutilati e invalidi, che erano stati riaccolti con non poca freddezza. Tutto era da ricostruire, dalle istituzioni fino letteralmente alle città, devastate dai bombardamenti. Si contavano danni per oltre 3.000 miliardi di lire, che significa tre volte il reddito italiano prima del 1939. In questo contesto, i successi del Torino furono un elemento capace di creare un nuovo senso unitario nazionale, sostituendosi ai miti nazionalisti imposti dal Fascismo. I granata erano, in effetti, la migliore antitesi possibile al calcio di epoca mussoliniana: non solo non erano stati un club di punta sotto il regime (quegli anni erano stati dominati piuttosto dalla Juventus e dal Bologna), ma addirittura si erano visti revocare lo scudetto del 1926/27, il che aveva reso le istituzioni del calcio fascista alquanto invise al tifo torinese. A ciò si aggiungeva il fatto che, in occasione del referendum del 2 giugno 1946, almeno otto giocatori del Torino si erano pubblicamente schierati in favore del voto per la Repubblica. Due di loro avevano certamente un background operaio: Guglielmo Gabetto proveniva da una famiglia del quartiere popolare di Borgo Aurora, mentre Valentino Mazzola era stato operaio a Milano negli anni giovanili.
Nel periodo più difficile per il nostro paese, il Grande Torino diede speranza alla gente, appassionò tutta la popolazione da Nord a Sud, ben oltre i confini della propria città, grazie alla rapida diffusione delle proprie imprese attraverso le radio e i cinegiornali. Come ha scritto lo storico Paul Dietschy, il Toro fu “ambasciatore di un’Italia che era stata marginalizzata per le sue scelte diplomatiche durante la guerra e per il suo passato fascista”. Quindi un simbolo non solo per gli italiani, ma anche degli italiani nei confronti degli stranieri: rappresentava l’idea che questo paese – il nostro paese – fosse cambiato, che fosse qualcosa di diverso rispetto a ciò che era stato nei vent’anni precedenti. Qualcosa di migliore.
Il 6 maggio 1949, una folla impressionante si riversò per le strade di Torino per vedere passare il corteo funebre. I cinegiornali dell’epoca parlarono di 500.000 persone, in una città che all’epoca aveva circa 700.000 abitanti. Le immagini ci mostrano una folla gremita di tanti giovani – e di tante giovani, che proprio in quegli anni avevano finalmente ottenuto il diritto di voto e, quindi, di fare pienamente parte della vita pubblica italiana – nuove generazioni impegnate con fatica nel costruire un paese nuovo.
Sul Corriere della Sera, Dino Buzzati commentò le esequie con pregevole finezza. Prima ammise, con grande onestà, come gli intellettuali avessero sottovalutato il valore sociale di quella squadra. “Bel merito, saper dare dei calci a un pallone; val la pena, per una prestazione simile, farne dei superuomini, per essi sgolarsi, smaniare, soffrire, spendere un mucchio di quattrini? Così si pensava molto spesso. E ci voleva la tragedia di Superga per aprirci gli occhi”. Secondo Paolo Spriano, la morte del Grande Torino fu il primo vero dolore collettivo del dopoguerra, lo sfogo delle sofferenze della Seconda Guerra Mondiale che erano in gran parte rimaste inespresse. Il parallelo tra Superga e la guerra era abbastanza chiaro, agli italiani del tempo: la carcassa del trimotore G. 212 non poteva non riportare alla mente quelle di altri aerei abbattuti durante i combattimenti. Gli stessi calciatori granata vennero comunemente indicati come “caduti di Superga”, con un nome che veniva utilizzato per coloro che erano morti nell’adempimento del proprio dovere, e nello specifico per i soldati. Lo stesso rito dell’appello, che ricorre nelle commemorazioni dei calciatori del Torino, era parte della retorica fascista legata ai soldati defunti, ma – come segnala lo storico Daniele Serapiglia – in questo caso va a rappresentare simbolicamente il passaggio dall’eroe militare del Fascismo all’eroe civico della Repubblica.
Negli anni si è affermata, attorno alla tragedia di Superga, la frase di Indro Montanelli sul fatto che i granata non fossero morti, ma “soltanto in trasferta”. In quei giorni, però, parole oggi meno celebri ma anche più poetiche le scrisse di nuovo Buzzati, dicendo come non ci fosse da illudersi: i campioni del Grande Torino non si trovavano certo tra quelle “lugubri tavole” esposte a Palazzo Madama nel giorno dei funerali, ma erano ormai da un’altra parte. “Se mai provate a sfogliare il quaderno del ragazzetto che stamattina si appartava in afflizione: là forse li ritroverete, su quelle innocenti pagine, per sempre intatti e puri“. 75 anni dopo, ciò che resta del Grande Torino è innanzitutto la realtà di una squadra che divenne un simbolo e un esempio per un’Italia che doveva rinascere. E che oggi dovrebbe ritrovare in questa memoria qualche insegnamento utile per il proprio presente.