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Il calcio in Russia vive da tempo un periodo difficile, che potrebbe essere ulteriormente aggravato dalla guerra in Ucraina e dall’isolamento del paese.

L’esclusione a tavolino dello Spartak Mosca dagli ottavi di Europa League racconta solo una parte della situazione odierna del calcio russo: il nono paese al mondo per popolazione (il primo europeo), con una lunga e solida tradizione nel calcio, sta in realtà vivendo da tempo un profonda crisi a livello di club e nazionali.

Ora, con la guerra in Ucraina e le sanzioni internazionali, la situazione rischia ovviamente di inasprirsi, dato che non pochi club locali sono di proprietà statale (a partire dal colosso Zenit San Pietroburgo, controllato da Gazprom) e che l’esclusione delle società e della Nazionale potrebbe accentuare la marginalizzazione della Russia nel football.

La scomparsa dei club

La crisi dei club è quella chiaramente più evidente. L’ultima squadra russa ad aver conquistato un titolo internazionale è stato lo Zenit di Dick Advocaat nel 2008, con la Coppa UEFA, in quello che fu l’anno d’oro del calcio locale (pochi mesi dopo, la Nazionale di Hiddink raggiungeva le semifinali dell’Europeo). Da allora il vuoto.

Gli ultimi quindici anni sono stati quelli dominati proprio dalla formazione di San Pietroburgo, ritenuta la più vicina a Vladimir Putin e che ha soppiantato il dominio dello Spartak degli anni Novanta. Gazprom ha investito molti soldi per rafforzare la squadra proprio a partire dal 2006, anno in cui la proprietà si è orientata per la prima volta verso allenatori occidentali, tutti di primo piano (Advocaat, Spalletti, Villas-Boas, Mancini). In questo lungo periodo, di qui sono passati alcuni dei più importanti giocatori russi e non, come Danny, Alessandro Rosina, Domenico Criscito, Hulk, Axel Witsel, Cristian Ansaldi, Javi Garcia e Leandro Paredes.

Colpi di mercato che hanno dato ai blu-bianco-azzurri il predominio quasi assoluto del campionato locale, ma non sono mai stati in grado di fargli fare il salto di qualità in Europa, e anzi i risultati negli ultimi anni sono andati peggiorando, con il passaggio del turno di Champions League che è diventato sempre più un’utopia. Risultati senza dubbio non all’altezza di una squadra con le potenzialità economiche dello Zenit (nel 2016, si parlava di un budget tra i 150 e i 170 milioni di euro annuali).

Uno dei problemi principali è rappresentato dalla disparità di valore tra gli stranieri e i giocatori locali. Da anni la Russia lotta per riuscire a tornare a produrre talenti di livello internazionale, ma sebbene negli ultimi vent’anni tanti nomi siano stati proposti all’attenzione generale, quasi nessuno è mai riuscito a sfondare: pensiamo a Titov, Izmailov, Pogrebnyak, Pavlyuchenko, Kerzakov, Kokorin, Golovin, con l’unica eccezione di Arshavin (a cui infatti si devono entrambi gli exploit del 2008).

Per rafforzare la produzione di giocatori locali, negli anni sono state imposte varie limitazioni al numero di stranieri nel campionato (l’ultima, nel 2019, li ha portati a 8 complessivi). Una mossa in linea con la politica nazionalista di Putin, ma che finora ha dato risultati molto negativi: i talenti non sono aumentati, e quei pochi esistenti sono talmente preziosi che i club si guardano bene dal lasciargli andare all’estero. È, per certi versi, il caso di Artem Dzyuba, esploso ai Mondiali del 2018 e in predicato di un trasferimento in qualche campionato occidentale, ma alla fine rimasto allo Zenit soprattutto per motivi simbolici: il miglior giocatore russo deve giocare nel miglior club russo. Oggi, a quasi 34 anni, riesce difficile immaginare un futuro diverso per lui.

zenit juventus

Fonte: Insidefoto

Le conseguenze della guerra sul calcio in Russia

L’invasione dell’Ucraina ha avuto un ritorno di fiamma abbastanza pesante: i giocatori ucraini, logicamente, hanno lasciato il paese (si pensi a Yaroslav Rakitskyi, anche lui dello Zenit), ma la stessa cosa hanno fatto anche alcuni calciatori e allenatori stranieri, come Markus Gisdol della Lokomotiv Mosca e Daniel Farke del Krasnodar.

L’addio più pesante, però, è quello di Khvicha Kvaratskhelia, il 21enne talento georgiano considerato tra i migliori prospetti a livello mondiale: le tensioni politiche tra il suo paese e la Russia lo hanno portato, nei giorni scorsi, a rescindere il contratto con il Rubin Kazan per tornare a casa, in attesa da una chiamata da un club occidentale la prossima estate. Così, la Prem’er Liga ha perso quello che era senza dubbio il suo maggior gioiello, impoverendosi ancora di più.

Le sanzioni economiche potrebbero avere ulteriori conseguenze, soprattutto per quanto riguarda proprio Gazprom, che ha visto saltare il suo cruciale accordo economico con la Champions League. Al momento è difficile immaginare una duratura esclusione del colosso energetico russo dal mercato europeo, ma già una significativa riduzione degli scambi potrebbe mettere in crisi il predominio locale dello Zenit. Senza un asso-piglia-tutto, che regolarmente si assicarava i migliori giocatori del campionato saccheggiando le rivali, la Prem’er Liga potrebbe anche giovarne, ma di sicuro il livello degli stranieri in arrivo in Russia si abbasserà, e questo difficilmente può considerarsi un bene.

Abbandonare l’Europa

Una delle ultime ipotesi, diffusa in settimana dalla rivista russa Championat, sarebbe quella di un addio alla UEFA per entrare nell’AFC, la confederazione asiatica: una forma di protesta per la reazione europea occidentale verso la guerra in Ucraina, per entrare in un’associazione composta da paesi politicamente più vicini a Putin, o comunque meno critici verso di lui.

Probabilmente, la minaccia russa non verrà mai messa in pratica, anche perché se è vero che avrebbe un senso a livello politico ne avrebbe molto meno sul piano sportivo. Storicamente, non si ricordano casi di paesi che passano da una federazione “maggiore” a una “minore” con l’intento di svilupparsi (un esempio opposto è appunto quello dell’Australia, che ha lasciato l’OFC per l’AFC). A livello economico, il calcio asiatico non puà garantire la visibilità e gli introiti della UEFA, sia a livello di nazionali che di club: le attuali spese delle squadre russe diventerebbero insostenibili, con i guadagni dei diritti tv della Champions League asiatica.

Un’altra importante conseguenza di questa supposta rivoluzione sarebbe il calo del livello degli stranieri: con meno possibilità di spesa e uno scenario inferiore a quello della UEFA Champions League, diventerebbe molto difficile ingaggiare giocatori di alto profilo. Il valore complessivo del calcio russo calerebbe ancora di più, e non è detto che questo possa essere compensato dalla più facile conquista di titoli internazionali: la competizione dei club coreani, giapponesi e sauditi è comunque agguerrita, e l’esempio della Cina (le cui società, nell’ultimo decennio, hanno speso molto per ingaggiare stelle europee, vincendo però solo due Champions con il Guangzhou) dimostra che i soldi non portano automaticamente alla vittoria.

Forse, da un simile cambiamento potrebbe beneficiarne la Nazionale, andando a competere con squadre più abbordabili sia nelle qualificazioni mondiali che nel torneo continentale. Ma anche qui, qualche dubbio rimane, specialmente vista la crescita di selezioni come Giappone e Corea del Sud, che a differenza della Russia hanno tanti giocatori impegnati nei massimi campionati europei. Oggi come oggi, è chiaro che per evitare il baratro il calcio russo debba prima di tutto venire a patti con UEFA e FIFA ed essere riammesso alle competizioni internazionali (una cosa che passa necessariamente dalla fine della guerra in Ucraina); ma a quel punto ciò che servirà saranno delle serie riforme interne, che finora hanno sempre lasciato a desiderare.

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