Il calcio italiano riflette, all’indomani dell’esclusione dai Mondiali, sui suoi problemi, e torna di moda una vecchia retorica: le colpe degli stranieri.
Rieccoci qui, un’altra volta: il calcio italiano attraversa un momento di difficoltà , e si scartabellano gli elenchi dei colpevoli, fino a che non vengono fuori loro, gli stranieri. Capro espiatorio perfetto da oltre 60 anni, oggi sono di nuovo nell’occhio del ciclone, con noti giornalisti che tornano a puntare il dito contro il bersaglio più facile e populista (al punto che stiamo parlando della stessa categoria di persone che è solita prendersi le colpe anche per tutti i problemi che ci sono fuori dal mondo del pallone).
Lo dice il presidente federale Gravina (“Ci sono troppi stranieri nelle giovanili”), che appena prima della sfida con la Macedonia del Nord si era premurato di naturalizzare tre oriundi sudamericani per rimpolpare la rosa di Mancini, lo dicono Zazzaroni e Caressa su Radio Deejay. Ebbene, meglio iniziare a pensare con un poco di maturità : dare la colpa agli stranieri non ha assolutamente alcun senso.
Il capro espiatorio storico del calcio italiano
Partiamo da una considerazione storica, dato che la memoria è un problema atavico del dibattito italiano. Gli stranieri divennero per la prima volta un problema, per il calcio italiano, durante l’infausta epoca del Fascismo: nel 1926, la Carta di Viareggio rivoluzionava il sistema e bandiva i giocatori non italiani dalla nascente Serie A. C’è chi dice che funzionò, perché nel decennio seguente vincemmo due Mondiali e un oro olimpico, e invece è un falso storico.
Perché se da un lato il Fascismo bandiva gli stranieri, dall’altro ne istituzionalizzava il largo utilizzo in Nazionale attraverso il massiccio ricorso alla naturalizzazione dei sudamericani, che furono i veri artefici dell’ascesa del nostro calcio. Oltre a loro, poi c’erano gli jugoslavi, figli dell’Istria e della Dalmazia, inglobati nel paese e costretti forzatamente a italianizzare i propri nomi. Non fecero in tempo a esordire in Nazionale, gli albanesi, conquistati e annessi “all’Impero” nel 1939, ma giocatori come Naim Krieziu e Riza Lushta furono tra le stelle del campionato italiano dei primi anni Quaranta.
La questione si ripresentò all’indomani dell’esclusione dai Mondiali del 1958 causata dall’Irlanda del Nord: gente come Montuori. Schiaffino, Ghiggia e Da Costa vennero accusati di non lottare da veri italiani e di disinteressarsi all’azzurro. E dire che erano stati chiamati in Nazionale dopo le figuracce dei Mondiali 1950 e 1954, a dimostrazione che, anche lì, i problemi del calcio italiano preesistevano agli oriundi. Dopo l’ennesimo disastro del 1962, vennero banditi dalla maglia azzurra, e quattro anni dopo una Nazionale pienamente italiana si fece umiliare dalla Corea del Nord.
Doveva essere ormai chiaro che il problema non erano gli stranieri, ma la tentazione xenofoba di scaricare tutte le responsabilità su un “elemento esterno” era troppo succosa da essere rifuggita: dopo la Corea, il calcio italiano tornò a chiudere le frontiere, a 40 anni dalla Carta di Viareggio, convinto che così sarebbero cresciuti più talenti in un paese che ne era radicalmente sprovvisto. Anche in questo caso, c’è chi dice che la riforma razzista ebbe risultati positivi, plasmando la Nazionale del 1982, ma ovviamente non andò così.
Le soluzioni inutili
Solo due anni dopo la chiusura delle frontiere, l’Italia vinceva il suo primo titolo europeo, e due anni dopo ancora la stessa squadra tornava in finale dei Mondiali, dopo aver vinto la leggendaria Partita del Secolo contro la Germania Ovest: un periodo troppo breve per vedere gli effetti della riforma del 1966. Il problema del calcio italiano non era dunque il talento, ma qualcosa di più profondo, che non venne risolto dal bando degli stranieri.
Che invece ebbe un effetto catastrofico sui club: da dominatori del calcio internazionale degli anni Sessanta, nel decennio successivo sparirono quasi del tutto dalle posizioni principali delle coppe europee, e il livello della Serie A crollò miseramente, sia a livello tecnico che tattico. Il Mondiale del 1982, tanto decantato, fu il frutto di circostanze favorevoli, ma ebbe vita breve: nel 1984 gli Azzurri restarono esclusi dagli Europei (primo e unico caso nella storia che una selezione europea detentrice del titolo mondiale non si qualifica al torneo continentale), e nel 1986 uscirono malamente agli ottavi del Mondiale messicano.
Invece, le Nazionali del 1990 (terzo posto) e 1994 (secondo), per non parlare di quella finalista di Euro 2000 e di quella campione del mondo del 2006, erano figlie e nipoti della riapertura delle frontiere del 1980, che elevò nuovamente il livello della Serie A, costrendo quel campionato ancora oggi tanto riampianto dai nostalgici.
La storia più o meno recente ci insegna che i limiti agli stranieri nel sistema calcio hanno solamente effetti dannosi. Per fare due esempi attuali, le regole più stringenti nell’area UEFA, oggi, le hanno Russia e Turchia, due paesi molto più popolati dell’Italia (quindi, con un bacino potenziale superiore) i cui risultati in termini di Nazionali sono indubbiamente deludenti. Paesi come Francia e Spagna hanno le nostre stesse limitazioni, e sono tra le squadre più forti al mondo sia tra gli adulti che a livello giovanile; stesso discorso vale per la Germania, che ha addirittura regolamentazioni più elastiche rispetto al calcio italiano.
Il vero problema degli stranieri in Italia
Leggendo in giro, potreste aver letto un dato che, a prima vista, potrebbe sembrare estremamente chiaro: il 43% dei giocatori dei vivai dei club italiani è straniero, una cifra più alta che negli altri principali paesi europei. Troppi stranieri nei settori giovanili, quindi pochi italiani che emergono, quindi pochi giocatori per la Nazionale. Sembra logico, ma non lo è: anzi, è un discorso miope.
La legislazione italiana sulla cittadinanza, come dovremmo sapere, è tra le più stringenti d’Europa. Il che significa che è difficile ottenere la cittadinanza e che, per un ragazzo figlio di stanieri ma nato e cresciuto nel nostro paese, fino ai 18 anni potrebbe essere impossibile essere ufficialmente italiano. Così, quando si guarda ai vivai, composti da giocatori principalmente minorenni, la quota di “stranieri” si alza enormemente e falsa il dato reale.
Questi ragazzi incontrano numerosi problemi, durante gli anni della loro crescita, a causa di una legislazione ingiustamente punitiva, che ha ripercussioni che vanno ben oltre il mondo del pallone. Ma limitatamente a questo settore, essa pone i presupposti per minare la crescita di un giovane: inasprire ulteriormente le regole, significherebbe escludere una fetta ancora maggiore di potenziali calciatori de facto italiani. Con l’obiettivo di dare più spazio ai nostri giovani connazionali, in realtà gliene daremo meno.
Sia chiaro, questo non è un problema solo nostrano. Da tempo, in Olanda si discute del problema dei marocchini con passaporto olandese, che crescono nei club locali e poi optano per la Nazionale magrebina (Hakim Ziyech è il caso più celebre). E nonostante questo gli Oranje sono tornati agli Europei nel 2020 e a novembre si giocheranno i Mondiali (con una popolazione che è meno di un terzo di quella italiana). Nel 2011, in Francia fece scalpore la notizia di un dibattito interno alla Federcalcio in cui il ct Blanc era arrivato a proporre le quote etniche nei vivai per alzare il livello dei Bleus; l’ipotesi venne ovviamente bocciata, e sette anni dopo Deschamps, con una squadra multietnica, riportava a Parigi la Coppa del Mondo (dopo aver sfiorato il titolo Europeo nel 2016).
Quindi, per concludere, non c’è alcun logico motivo per ritenere che gli stranieri abbiano in qualche modo delle responsabilità nei recenti risultati dell’Italia del calcio; e la storia ci ha sempre detto che le limitazioni su questo fronte hanno solo ripercussioni negative. Ognuno è libero di proporle, sia chiaro, ma sarebbe ora che, quando ciò avviene, venga accolto con doverosi sorrisini di circostanza e invitato a lasciare parlare chi vive ancora in questo universo.
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