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Antonio Conte, agli inizi della sua carriera, praticava un gioco piuttosto diverso da quello che vediamo oggi all’Inter. Dal 4-2-4 al 3-5-2, non è stata solo questione di cifre

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IL 23 febbraio scorso, Antonio Conte pubblicava sul suo profilo Instagram un video che mostrava in parallelo due azioni della sua Inter – una del 2 ottobre 2019 contro il Barcellona, gol di Lautaro con superba costruzione dal basso e ragnatela di passaggi; una nel derby del 21 febbraio 2021, gol di Lautaro con rapida verticalizzazione. “Tiki taka o calcio verticale? Meglio un giusto compromesso?” chiedeva l’allenatore ai suoi followers.

Con il 3-0 al Milan, l’Inter staccava i cugini a +4 in classifica, e iniziava la sua fuga solitaria. Qualche mese dopo, lo scudetto sembra cosa fatta, e intanto sui media impazza il dibattito su quanto giochino male i nerazzurri. Le critiche di oggi raccontano prima di tutto un Conte diverso rispetto a quello che quindici anni fa si affacciò alla sua nuova carriera in panchina.

C’era una volta il 4-2-4

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Formatosi tatticamente nella Juventus di Lippi, poi un anno a Siena a fare il vice di Gigi De Canio, Antonio Conte diventa allenatore nel 2006 ad Arezzo, piccola piazza destinata a retrocedere dalla B alla C1 dopo la penalizzazione per Calciopoli. Conte arriva, non ottiene risultati, viene esonerato dopo nove giornate (lo sostituisce Sarri, ma questa è un’altra storia), poi richiamato.

In pochi mesi le cose cambiano. Il Conte dell’estate del 2006 era ancora quello uscito da Coverciano con in testa uno strutturato 4-3-1-2, argomento della sua tesi; ma dopo la prima parentesi toscana è stato in Olanda, e ha incrociato per caso un allenamento dell’AZ Alkmaar di Louis van Gaal. Al suo ritorno, decide di proporre un 4-2-4 ultraoffensivo, e con questo l’Arezzo sfiora un’incredibile salvezza.

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Il mio 4-2-4 è nato qua” ricorderà anni dopo. Questo modulo dal suono di Brasile ’58 diventa il suo tratto distintivo, come il 4-3-3 lo è stato per Zeman. La fama la ottiene a Bari, nelle successive due stagioni, facendosi affiancare come vice da Antonio Toma, che il 4-2-4 lo aveva già sperimentato in prima persona al Pisa. È in Puglia che Antonio Conte spicca il volo, con i suoi terzini alti, i difensori centrali che si allargano, il pressing asfissiante. Nell’Italia di fine anni Duemila, dominata dal gioco compassato e accorto dell’Inter di Mourinho, è una rivoluzione.

Nel 2009 arriva la promozione in A, Antonio Conte lascia e passa all’Atalanta, ma entra in rotta col capitano Doni e se ne va presto. Nel 2010 è a Siena, e il suo gioco offensivo colpisce ancora, conquistando una nuova promozione in A. In estate, giunge la chiamata da una Juventus disastrata.

Il nuovo Antonio Conte

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A Torino, il gioco di Conte cambia. I bianconeri stentano a ingranare (due vittorie e tre pareggi nelle prime cinque) e piovono critiche sul suo gioco spregiudicato; il salentino cerca di dare più equilibrio togliendo una punta e aggiungendo Vidal a centrocampo. Il cileno è il perno della svolta della Juventus e del gioco di Conte, e questo spiega bene perché la scorsa estate lo abbia rivoluto all’Inter, nonostante i suoi 33 anni: nessuno porta il pressing con l’intensità di Vidal, ed è questa la vera idea peculiare del gioco di Conte.

infortunio vidal

Fonte: @kingarturo23oficial (Instagram)

La metamorfosi è però ancora imperfetta: la Juventus sconfigge Milan e Inter, ma perde ancora troppi punti per strada, pur rimanendo imbattuta. Il 27 novembre contro il Napoli, per necessità (manca Marchisio infortunato) Antonio Conte opta per alzare i terzini e disegna un 3-5-2: è la prima apparizione di un modulo che verrà riproposto qua e là nel corso della stagione del suo primo scudetto, per poi consolidarsi nell’annata seguente e diventare il modulo di Conte.

Un calcio di mediazione

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Il tecnico pugliese sembra ormai quasi l’opposto di quello conosciuto negli inizi di carriera: il suo gioco si è fatto più conservativo, meno offensivo, più calcolatore. Ma non c’è stato alcun passo indietro; i principi sono rimasti gli stessi: le squadre di Conte continuano a costruire i proprio successi sull’intensità del pressing, sui movimenti degli esterni (se prima erano gli scambi tra difensori e attaccanti nel 4-2-4, oggi sono i terzini alti a tuttocampo come Hakimi) e sui difensori centrali che impostano il gioco (è a lui che si deve l’ascesa di Bonucci, i cui eredi nerazzurri oggi sono De Vrij e Bastoni).

Nell’estate del 2016 Marti Perarnau affermava che l’Italia di Conte praticava il gioco di posizione, solo declinato in una nuova versione, mediata con un calcio tradizionalmente più italiano: “Non è un gioco di posizione sofisticato, ortodosso e accademico, quindi risulta più difficile da percepire e analizzare, però contiene tutti i princìpi e li mette in pratica con maestria”.

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Dall’Italia al Chelsea all’Inter, la storia tattica di Antonio Conte è quella della ricerca di una via di mezzo, quel “giusto compromesso” paventato in chiusura del post di febbraio su Instagram. È un allenatore che conosce l’ambiente in cui lavora, e sa che in Italia si passa dalle crociate contro la costruzione dal basso a quelle in favore del bel gioco della prima in classifica, a cui lui risponde in maniera studiatamente pragmatica. “L’importante è lo scudetto. L’estetica, se arriva bene, se no amen; poi andremo tutti a farci un lifting“.

 

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