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I calciatori eritrei si trovano in una situazione molto complicata, vivendo sotto un regime repressivo che gli costringe spesso alla fuga e a vivere da rifugiati nei paesi limitrofi

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Nella narrazione del calciomercato internazionale, il trasferimento di Robel Teklemichael dal Red Sea FC di Amsara all’Ethiopia Bunna di Addis Abeba non ha lasciato alcun segno significativo. Eppure si tratta di uno dei movimenti di mercato più importanti degli ultimi anni, anche se più per meriti politici che sportivi.

Per i calciatori eritrei, infatti, non è per nulla facile lasciare il proprio Paese per andare a giocare all’estero, anche quando ci sono importanti offerte. Ecco perché, sempre più spesso, i giocatori della Nazionale approfittano degli incontri internazionali per fuggire e chiedere asilo politico.

I calciatori eritrei in fuga dalla dittatura

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È quello che è successo nel gennaio del 2020, in occasione della Cecafa Cup (un torneo di calcio dell’Africa orientale), quando quattro giocatori della Nazionale U20 dell’Eritrea decisero di restare in Uganda, sede della competizione, invece di fare ritorno a casa. “Tutti i club in Eritrea sono sotto il controllo del governo, quindi i funzionari dei club sono costantemente in contatto con il governo, o talvolta sono essi stessi funzionari statali” ha spiegato al Guardian  uno di loro, Hanibal Tekle.

Nel 1993, al termine della guerra d’indipendenza dalla vicina Etiopia, il potere in Eritrea fu preso dal comandante del Fronte di Liberazione Isaias Afewerki, che da allora governa attraverso un ferreo sistema dittatoriale che limita enormemente la libertà di stampa e vieta di riunirsi in luoghi pubblici a gruppi composti da più di due persone.

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Ai calciatori eritrei non è generalmente permesso di trasferirsi a giocare all’estero. In caso si presenti una simile possibilità, il giocatore deve ottenere prima il permesso del proprio club e poi quello del governo, che di solito viene rifiutato. “Quando chiedi il motivo, – aggiunge Tekli – non te lo dicono, o semplicemente rispondono: ‘Non puoi andare’“.

Nel 2008, Sami Tesfagabr ricevette un’offerta dall’Hapoel Petah Tikva, una delle principali squadre del campionato israeliano, che fa parte della UEFA, ma gli fu negato il permesso di lasciare il Paese. Un anno dopo, partì con la Nazionale per il Kenya per disputare la Cecafa Cup, e assieme ad alcuni suoi compagni scelse di non tornare: trascorse otto mesi in un campo profughi, prima di essere riconosciuto come rifugiato e trasferirsi in Australia. Dal 2016, Tesfagabr è ufficialmente cittadino australiano.

La difficile esperienza di Tekle e compagni

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Dei calciatori eritrei che nel dicembre 2019 sono riusciti a conquistare la prima storica finale della Cecafa Cup, sette sono scomparsi in Uganda subito dopo la competizione, e ad oggi ancora non si sa cosa sia successo loro. Tekle e altri tre sue compagni – Mewael Yosief, Simon Asmelash e Hermon Yohannes – sono ancora lì in un campo profughi dell’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

Inizialmente erano stati sistemati in una casa sicura, per nasconderli dagli agenti del governo di Asmara, che vanno a caccia di transfughi per catturarli e riportarli a forza in patria. Poi, l’UNHCR ha comunicato loro di volerli trasferire in un’abitazione comune, esponendoli a un rischio per la loro sicurezza. I quattro calciatori eritrei non hanno accettato, ma lo scorso dicembre sono stati fatti uscire, e da allora stanno aspettando di essere rinsediati.

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“Da quando è scoppiato il Covid-19, nessuno ha più chiesto di noi” ha spiegato Tekle al quotidiano britannico. Finora hanno ricevuto sostegno dai connazionali rifugiati in Olanda, alcuni dei quali sono calciatori eritrei scappati dopo la Cecafa Cup del 2012, che hanno organizzato una raccolta fondi per loro. Ma ovviamente è necessario un intervento deciso dell’UNHCR.

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