La Brexit, nel calcio, viene spesso messa in relazione con la possibilità dell’Inghilterra di tornare a produrre giovani di talento che trovino spazio nei club di vertice della Premier League. Ma andrà davvero così?
Da inizio 2021 sono entrate in vigore le nuove regole della FA dovute alla Brexit, che prevedono ostacoli per l’arrivo nei campionati inglesi dei giocatori non-britannici. Questa mossa è stata salutata da molti commentatori e addetti ai lavori come qualcosa di positivo, che permetterà la crescita dei talenti inglesi.
Da un lato, le nuove regole vanno a impattare sulle strategie di club che si dedicano molto ai giovanissimi stranieri, tipo il Manchester City, ed è già stato fatto notare come avrebbero impedito l’arrivo a suo tempo di Cesc Fabregas all’Arsenal. Dall’altro, però, potrebbero risolvere il problema dell’espatrio dei giovani, che non trovando spazio in Premier League vanno a cercare fortuna altrove (Sancho, Bellingham, Musiala, Madueke).
Lo spazio per i giovani inglesi
Senza dubbio, il successo all’estero di giovanissimi calciatori inglesi che non hanno avuto chance in Premier League pesa molto sui giudizi e sulle aspettative per queste nuove regole. Negli ultimi anni, il club che ha lanciato il maggior numero di talenti inglesi è stato il Chelsea (Mount, Abraham, Hudson Odoi, James), ma è stato costretto a farlo a causa dei blocchi sul mercato e, appena i vincoli sono stati rimossi, il club si è gettato su nuovi ingombranti (e finora poco fruttuosi) acquisti internazionali.
Però le cose non sono così semplici: anche con la Brexit, i giovani inglesi dovranno vedersela con una dura competizione per arrivare in prima squadra. Le nuove regole, infatti, non impediscono i trasferimenti di stranieri, ma le limitano attraverso un sistema di punti basato sul livello del giocatore. Probabilmente arriveranno meno stranieri, ma il livello medio sarà più alto; dove la competizione calerà, sarà nei settori giovanili.
Eppure, già prima del 2021 le formazioni U18 dei principali club di Premier League avevano un numero ridotto di giocatori non britannici. Oggi, sono appena due nell’Arsenal, tre nel Tottenham, cinque nel Chelsea e altrettanti nel Liverpool. L’Inghilterra, a livello giovanile, è tutt’altro che una nazionale in declino: nel 2017 ha vinto il titolo mondiale U17, quello europeo U19 e quello mondiale U20.
L’unica cosa positiva della Brexit
È innegabile che le voci sulla crisi del calcio giovanile inglese non hanno oggi alcun fondamento, anzi era da tempo che la Premier League non produceva così tanti giocatori promettenti: Curtis Jones, Phil Foden, Mason Greenwood, Bukayo Saka. Praticamente ogni club del campionato ha il suo baby-fenomeno.
Eppure, in Inghilterra c’è una discreta convinzione che le novità introdotte a causa della Brexit possano rappresentare un grande vantaggio per la carriera delle prossime generazioni di calciatori britannici. Alan Redmond, capo della sezione calcio di Roc Nation – l’agenzia statunitense che rappresenta giocatori come Wilfried Zaha e Chris Richards – ammette che questa “è probabilmente l’unica cosa positiva della Brexit“.
È difficile fare dei raffronti con situazioni simili, perché nulla del genere è mai successo prima d’ora. L’unica cosa che ci si avvicina, anche se fu più radicale, è la chiusura delle frontiere del calcio italiano dal 1966 al 1980. Il divieto totale di acquistare giocatori stranieri precipitò i club della Serie A in un decennio di anonimato dopo la grande decade dei Sessanta, ma permise l’affermazione della generazione che vinse il titolo mondiale nel 1982. Il conflitto, quindi, sembrebbe essere quello tra gli interessi dei club e quello della nazionale.
Però non va sottovalutato che, oltre ad avere una promettente selezione giovanile, l’Inghilterra è anche in ripresa a livello di prima squadra, e nel 2018 è arrivata quarta ai Mondiali, ottenendo il miglior risultato dal 1990. Invece, all’epoca in cui la First Division era un campionato tutto britannico, i Three Lions nemmeno si qualificavano alla Coppa del Mondo!
Il problema dei giovani all’estero
I britannici, specialmente quando c’è di mezzo il calcio, si rivelano ancora molto protezionisti e nazionalisti: di per sé, infatti, non c’è alcun valido motivo per ritenere un problema che alcuni giovani, non trovando spazio in Premier League, si trasferiscano all’estero e diventino stelle di club stranieri.
Paesi come Francia e Portogallo, vale a dire i detentori del titolo mondiale ed europeo, hanno costruito i loro successi proprio sull’esportazione dei propri talenti all’estero spesso in giovane età. Invece che rappresentare un sintomo di crisi e difficoltà, questo fenomeno dimostra l’ottimo momento del calcio inglese, capace anche di esportare talenti senza che la Nazionale o il campionato calino di livello.
I veri risultati della Brexit sul calcio giovanile britannico e sulle sue prossime generazioni, però, dipenderanno molto dal nuovo approccio che adotteranno i club. Puntare sui giovani è e continuerà ad essere una scelta delle singole società, così come scegliere se giocare in patria o all’estero, per delle generazioni sempre più multiculturali, dovrà essere una scelta dei singoli giocatori.
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