Stufi della gestione Cairo, i tifosi del Torino nei giorni scorsi hanno provato a offrire la società a Red Bull. Ma il matrimonio tra i granata e colosso austriaco, già tentato nel 2010, non s’ha da fare.
Si può offrire una società di calcio a un potenziale acquirente, andando semplicemente in tendenza su Twitter? Probabilmente no, ma i tifosi del Torino ci hanno provato lo stesso. A dieci anni da quello che fu un tormentone societario incredibile, i supporter granata ci hanno riprovato lanciando un hashtag sul popolare social network blu. In poche ore, #RBTorino è diventato virale, con tanto di commenti al seguito.
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Gironzolando un po’ su Twitter si nota come la maggior parte dei tifosi del Torino, stremati dalla gestione Cairo, siano idealmente favorevoli al passaggio societario sotto una multinazionale straniera. Il fatto che tale azienda sia Red Bull, però, non è assolutamente un caso. Anzi, arrivare direttamente alle orecchie – o meglio, agli occhi – del CEO Dietmar Mateschitz sarebbe un obiettivo ben preciso.
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Così come preciso è stato anche il messaggio lanciato a Red Bull: se comprate il Torino, sappiate che non vi ritroverete in mano solo una società sportiva, ma un pezzo di storia del calcio italiano e una tifoseria pronta a scendere in piazza per liberarvi la strada. Ovviamente di suggestione si tratta e come tale va affrontata, ma vedere come i tifosi su Twitter si siano ingegnati a portare avanti la campagna social la dice lunga sul momento che stanno vivendo.
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Torino Red Bull, quel retroscena del 2010
Torino e Red Bull si sono già annusati una decina di anni fa: era infatti il 2010 quando alcuni emissari della multinazionale che commercia in bevande energetica sbarcarono in città per capire se ci fossero i presupposti per acquistare il club granata. Ci sono testimonianza discordanti riguarda a ciò che successe in quei giorni: da un parte, c’è chi sostiene che Cairo non si sia fatto trovare.
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Dall’altra, quella che sembra la versione più realistica racconta di come Red Bull abbia chiesto e ottenuto un colloquio con l’allora giunta cittadina, per capire se eventualmente a Torino si sarebbero potuti imbastire discorsi sulle infrastrutture. Lo stadio pare fosse l’argomento centrale, così come la costruzione di un nuovo centro sportivo e, più in generale, il ruolo che Red Bull avrebbe potuto avere all’interno del tessuto cittadino.
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Non se ne fece nulla e tuttò restò in fase semi-embrionale. La difficoltà a fare business è sicuramente il motivo principale per il quale Red Bull battè velocemente in ritirata: in Italia, soprattutto per quanto riguarda l’edilizia, c’è una burocrazia eterna e, non avendo ricevuto garanzie riguardo la libertà di operare, ogni discorso andò a cadere.
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Ci sono però altre considerazioni da fare. La prima riguarda il modus operandi di Red Bull: se consideriamo tutte le squadre in orbita aziendale, nessuna ha la sede in una città dove sono presenti altre potenziali competitor. Si va a fare calcio, in sostanza, dove il calcio di un certo livello latita. Figuriamoci sbarcare a Torino, dove una presenza decennale è ben radicata sia dal punto di vista sportivo che industriale, ma soprattutto politico.
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In secondo luogo, non è nemmeno detto che ai tempi i tifosi sarebbero stati ben disposti. D’altronde, Cairo era presidente da soli cinque anni e in pochi potevano immaginare che la gestione societaria del Torino avrebbe vissuto esclusivamente di bassi per ben tre lustri. Red Bull significa restyling totale – anche se, il Torino, si presta per ovvi motivi a non essere graficamente stravolto – e in pochi, in una tifoseria mediamente vecchia e nostalgica, avrebbero capito il cambiamento.
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Ora i tempi sono cambiati e non più maturi. Cosa resta quindi? Beh, sicuramente i tanti meme che hanno invaso Twitter: da capitan Belotti con lo sponsor raffigurante i due tori fino a un distributore automatico marchiato Red Bull all’entrata del Filadelfia, passando per il nuovo ipotetico luogo. Iniziativa lodevole, simpatica, forse poco compresa all’esterno. Ma alla fine, forse, è giusto che sia così.
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