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Il 17 ottobre 1976 nasceva Sebastian El Loco Abreu, uno di quegli idoli sudamericani per appassionati, attaccante giramondo e sempre in controtendenza. Ecco la sua storia.

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Nel calcio ci sono quelle figure che lasciano il segno senza aver fatto nulla che, in teoria, dovrebbe essere ricordato nella storia. Provengono spesso dal Sudamerica, un microcosmo in cui il pallone segue regole diverse, quasi metafisiche, rispetto al freddo cinismo europeo. Sebastian Abreu, detto El Loco (come Bielsa) è una di queste figure.

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Abreu, a spasso per il mondo

Se vi state domandando cosa abbia vinto di così importante, state sbagliando domanda. Non perché non abbia vinto nulla (anche se comunque pochino: cinque campionati uruguayani, due argentini e uno salvadoregno, più una Copa America), ma perché Abreu è uno di quei giocatori che hanno saputo conquistare i tifosi con il proprio carisma e con i gol, più che con i titoli. E non è una cosa da poco per uno che, come lui, non si è mai fermato troppo a lungo in un posto.

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Di nomadi del pallone ce ne sono tanti, la maggior parte dei quali cambiano spesso squadra perché non si ambientano o non trovano la fiducia degli allenatori; Abreu no, lui ha sempre fatto bene in praticamente qualsiasi posto in cui è stato, e alla fine ha sempre scelto di andarsene. È un personaggio chatwiniano, incapace di mettere radici, che sente il richiamo del mondo e non riesce a sottrarvisi.

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Un paio d’anni fa era entrato nel libro del Guinness World Record per aver giocato in 26 squadre in undici paesi diversi: all’epoca si trovava in Cile, nell’Audax Italiano, ma da allora si sono aggiunti altri due club alla lista: il Magallanes, sempre in Cile, e il Boston River, in Uruguay, dove gioca ancora adesso. La carta d’identità dice che ha 44 anni, ma per lui questi sono dettagli, e infatti meno di un mese fa ha segnato un’altra rete nel campionato locale, contro il Danubio.

Il Nacional, il Messico e l’Europa

Ha scoperto il nomadismo quasi per caso, i suoi inizi di carriera erano anzi stati molto ordinari, tipici di un promettente attaccante sudamericano. Esplode nel Defensor Sporting di Montevideo, passa al più blasonato campionato argentino, mettendosi in mostra nelle fila del San Lorenzo con 26 gol in due stagioni, e nel 1997 si conquista un ingaggio in Europa, venendo acquistato dal Deportivo La Coruña. È qui che le cose cambiano.

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Abreu non si ambienta in Liga, gioca poco e segna appena 3 gol, così sceglie di cambiare aria. Il Depor acconsente e inizia a prestarlo in giro: al Gremio, ai messicani del Tecos, di nuovo al San Lorenzo, al Nacional di Montevideo (che diventerà uno dei club in cui farà ritorno più volentieri, nel corso della carriera), al Cruz Azul, all’America. Il Messico diventa un po’ la sua seconda casa, nonché il campionato dove segna con maggiore naturalezza.

Nel 2001 stabilisce probabilmente un altro record, anche se forse mai registrato: vince tre campionati in due paesi diversi. Con 10 reti, è decisivo nella conquista del Clausura da parte del San Lorenzo; con 16, invece, porta il Nacional a vincere sia il Clausura che il campionato Uruguayo.

Il Deportivo lo libera finalmente nel 2004, così Abreu inizia a viaggiare in proprio, suggellando quella vocazione da spirito libero che lo ha sempre animato. Il Messico, dicevamo: ci si trova talmente bene che vuole giocare in ogni club del campionato. Passa dai Dorados de Sinaloa (dove lo allena il mitico Juanma Lillo e gioca al fianco di Pep Guardiola), dal Monterrey, dal San Luis e dal Tigres UANL, e quando si rende conto di aver visto tutto il paese e segnato ovunque ci fossero due pali e una traversa, si congeda e va in Argentina.

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L’esperienza al River Plate è spezzata in due tronconi (durante i quali conquista il Clausura del 2008), inframezzata da viaggi oltre oceano. Il primo lo porta finalmente in Asia, in una delle terre di nomadismo per eccellenza, finendo a giocare nel Beitar Gerusalemme. Poi il ritorno in Spagna, quasi a ricordare alla Liga cosa si sono persi: a 33 anni, Abreu segna ancora 11 reti in 18 partite con la Real Sociedad, sfiorando la promozione nella massima serie. Quindi, le ultime reti europee le segna in Grecia, con l’Aris Salonicco.

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La Copa America, il Brasile, il Cile

Da ragazzo, al Gremio, non aveva fatto una buona impressione, e il Brasile non aveva fatto una buona impressione a lui; così, ora che è adulto, è giunto il momento di fare ritorno e riscrivere anche quel capitolo. A 35 anni, diventa la stella del Botafogo e si guadagna la convocazione di Oscar Tabarez per la Copa America, che diventerà il suo trofeo più importante, nonostante il suo ruolo marginale in quella Celeste.

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Figueirense, Nacional, Rosario Central e quindi una nuova scommessa, in Ecuador con l’Aucas, prima di tornare in Uruguay. Per i suoi 40 anni decide di regalarsi un viaggio, anzi due: prima in Paraguay, per fare mezza stagione con il Sol de America, e poi a El Salvador, per finire l’annata nel Santa Tecla, dove vince il suo ultimo campionato. Abreu è un viaggiatore seriale e famelico, talmente ossessionato dal bisogno di esplorare, scoprire e calciare il pallone che ogni sessione di calciomercato è un’opportunità. Vive il calcio come un’esperienza profondamente umana, prima ancora che sportiva.

Gli ultimi anni lo portano di nuovo in Brasile, nel Bangu, e a Montevideo, con il Central Español. È vecchio, e ormai sembra vicino al ritiro (nonostante le sue medie realizzative siano ancora molto alte: 4 gol in 7 partite al Central, per dire), e invece riparte e va in Cile, una delle poche nazioni sudamericane che ancora non ha visitato. Parte dalla seconda divisione, dal modestissimo Deportivo de Puerto Montt, in una cittadina stretta tra un golfo e un vulcano, e attraversata dalla Carrettera Austral che porta nel profondo sud e nella Patagonia (ecco Chatwin che ritorna). 11 gol in 13 partite, e l’Audax Italiano lo chiama nella serie maggiore e nella capitale Santiago, dove poi si sposterà al Magallanes.

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Nel 2019 torna a casa, nella sua Montevideo. ‘Sua’ d’adozione: Sebastian Abreu viene da una cupa cittadina mineraria 121 chilometri più a nord-est, incastonata tra i monti e talmente anonima da chiamarsi semplicemente Minas, “miniere”. Non c’è da stupirsi, allora, se un ragazzo cresciuto in un posto del genere abbia deciso di anteporre ai trofei un’esistenza errabonda, usando i gol come passaporto per girare il mondo.

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