Il cosiddetto “caso Suarez” ha portato nuovamente alla ribalta la norma che regolamenta l’utilizzo dei calciatori extracomunitari in Serie A. Nata con lo scopo di proteggere i vivai e la Nazionale, oggi questa regola sembra decisamente superata, soprattutto alla luce di quanto accade in realtà calcistiche che non prevedono limitazioni.
Il colpo di settembre della Serie A, l’arrivo alla Juventus del bomber uruguaiano Luis Suarez, è saltato. Considerato comunitario dal calcio spagnolo ma extracomunitario dal nostro, l’attaccante del Barcellona avrebbe avuto bisogno di superare un esame d’urgenza per prendersi il passaporto italiano e con esso un posto nei bianconeri, “colpevoli” di aver già speso gli slot disponibili per gli acquisti extra UE con Arthur e McKennie.
Per parlare dell’avventuroso e improvvisato esame sostenuto a Perugia da Suarez e delle possibili ripercussioni che avranno le intercettazioni venute alla luce ci sarà tempo. Preso atto che comunque il nostro calcio ha perso l’occasione di arruolare un vero campione, quello su cui possiamo riflettere, approfittando dell’occasione, è sull’effettiva utilità di una regola, quella relativa al tesseramento dei calciatori extracomunitari in Serie A: va rivista o abolita?
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Perché abolire la regola del tesseramento dei calciatori extracomunitari
La domanda è semplice: ha senso, nel 2020 e in un mondo globalizzato come quello in cui viviamo oggi, fare ancora distinzioni tra calciatori comunitari ed extracomunitari?
Nel 1995, con la famosa sentenza Bosman, il mondo del calcio è cambiato per sempre: la causa intentata da un calciatore belga semi-sconosciuto, che intendeva trasferirsi dal RFC Liegi ai francesi del Dunkerque da svincolato, ebbe come conseguenza più importante quella di cancellare l’indennizzo fino ad allora dovuto a un club che vantava diritti su un calciatore svincolato e la liberalizzazione del mercato tra giocatori all’interno dell’Unione Europea.
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Equiparati ai comuni lavoratori, i giocatori di calcio potevano così spostarsi liberamente all’interno della UE per motivi di lavoro, motivo per cui le varie federazioni nazionali furono costrette ad abolire qualsiasi restrizione relativa agli stranieri tesserabili da un club. Piaccia o meno, questo ha portato a un mercato più libero, a un progressivo abbandono dei vivai e a una presenza sempre più massiccia di giocatori non autoctoni all’interno dei vari campionati.
All’alba della stagione 2020/2021, secondo i dati di Transfermarkt, i calciatori stranieri in Serie A sono il 57,6%. Nei top 5 campionati UEFA il nostro torneo si colloca davanti alla Bundesliga tedesca (55,6%) alla Ligue 1 francese (46,6%) e alla Liga spagnola (36,8%) e alle spalle soltanto della Premier League inglese, che guida con addirittura il 62,6%.
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Vero è che il calciomercato deve ancora concludersi, ma è difficile immaginare che queste percentuali si sposteranno di molto, e anche se ancora non è chiaro quali saranno le conseguenze della Brexit sul calcio inglese la sensazione è che il percorso di globalizzazione intrapreso dal calcio difficilmente sarà abbandonato. Al massimo per sbarcare ad Albione un calciatore straniero (dunque non britannico) dovrà dimostrare di poter fornire un contributo significativo al movimento, come del resto già accade con gli extracomunitari.
A proposito di quest’ultima categoria: la norma che ne regola il tesseramento in Serie A (qui il comunicato FIGC in merito aggiornato al 4 agosto) e che ha impedito il trasferimento di Luis Suarez alla Juventus è decisamente più rigida rispetto alla stessa in Francia, dove ogni club può tesserare fino a 4 extracomunitari, e soprattutto in Germania dove non esistono limiti di sorta.
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Eppure è innegabile il fatto che tanto il movimento francese quanto quello tedesco abbiano prodotto negli ultimi anni una lunghissima lista di giovani di talento, a dimostrazione che le norme relative all’utilizzo degli extracomunitari, varate per proteggere i vivai nazionali e favorire lo sviluppo dei giovani per le selezioni nazionali, in realtà incidono poco. Ulteriore riprova l’emergere sulla ribalta internazionale di talenti provenienti da Belgio, Olanda e Portogallo, altri Paesi che non pongono alcun limite sul tesseramento di calciatori extra UE.
Preso atto che difficilmente la situazione potrà tornare a quella precedente la sentenza Bosman – si andrebbero infatti a infrangere norme sacrosante sulla libera circolazione dei cittadini all’interno dell’Unione Europa – e constatato che la crescita dei giovani sembra tutt’altro che legata alla rigidità delle norme nei confronti degli extracomunitari, è naturale chiedersi se le regole che riguardano quest’ultima categoria di calciatori abbiano ancora un’utilità o non siano altro che un mezzo per mascherare problemi ben più radicati.
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Calciatori extracomunitari in Serie A, limite o risorsa?
In Italia, ad esempio, potremmo dire che troppi giocatori vengono considerati “giovani di prospettiva” ben dopo aver compiuto i 21-22 anni, età in cui in molti altri tornei tanti ragazzi hanno già messo insieme minuti importanti in massima serie e persino in top club. I costi eccessivi sul mercato interno e un’esterofilia generalizzata tanto tra gli addetti ai lavori quanto tra i tifosi – l’Inter la scorsa stagione ha preso Barella e Sensi, due talenti italiani chiamati al grande salto che sono però stati quasi snobbati dai media – sono altri fattori da tenere in considerazione.
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Il limite sugli extracomunitari non ha impedito ad esempio all’Atalanta di entusiasmare l’Italia con una percentuale di stranieri pari al 61,8%: nella banda di Gasperini gli unici italiani a giocare con una certa frequenza erano i portieri Gollini e Sportiello, uno riserva dell’altro, e i centrali difensivi Masiello e Caldara, con il secondo che a gennaio ha preso il posto del primo. Anche la Juventus campione d’Italia ha utilizzato 17 stranieri, il 63% dei giocatori in rosa: pur puntando sui giovani italiani, i bianconeri finiscono per lanciarne ben pochi ad alto livello.
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La verità è che in un calcio dai ritmi frenetici come quello attuale pochi club hanno la possibilità di attendere la crescita di un giovane talento, inevitabilmente fatta di alti e bassi: il 22enne Manuel Locatelli è oggi considerato un punto fermo dell’Italia del futuro, ma già 4 anni fa si era messo in luce nel Milan per poi essere sorpassato nelle gerarchie da calciatori che con il senno di poi non si sono dimostrati migliori di lui. È stato bravo a rilanciarsi nel Sassuolo, ma la sensazione è che se i rossoneri avessero avuto più pazienza oggi vestirebbe ancora la maglia del Diavolo.
E che dire di Marco Verratti? Considerato da anni uno dei più forti centrocampisti al mondo, è stato acquistato dal PSG ancora 19enne – e senza alcuna esperienza in Serie A – per 12 milioni di euro. Vero che il fascino di Parigi e i soldi degli emiri sono innegabili, ma lo è anche il fatto che molti club italiani tentennarono davanti alla cifra ritenendola eccessiva.
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Poca pazienza, esterofilia, costi eccessivi e scarsa fiducia sono i fattori che frenano la crescita dei giovani talenti nostrani: i club da sempre abituati a fare scouting sul territorio nazionale hanno cominciato per ragioni economiche ad andare a pescare in Paesi economicamente più abbordabili, le grandi – costrette a inseguire il risultato a tutti i costi anche per restare al top – non possono investire cifre enormi sui giovani né hanno tempo per aspettarli.
È però anche vero che Gigio Donnarumma da anni è il portiere titolare del Milan, che Locatelli come abbiamo detto è entrato nel giro della Nazionale, di cui Zaniolo e Chiesa sono già punti fermi da un pezzo. Questo perché il talento, se è vero, emerge in qualsiasi condizione e con qualsiasi concorrenza, che anzi proprio l’avere una “strada facilitata” da qualche norma rischia addirittura di essere controproducente.
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L’Italia e i giovani campioni
Per concludere, più che concentrarsi sui limiti relativi agli extracomunitari in un mondo iper-globalizzato come quello del calcio, dove gli stranieri ad alto livello sono una presenza comunque costante e inevitabile, sarebbe il caso di chiederci perché l’Italia non riesca più a produrre lo stesso numero di giovani campioni di un tempo, talenti che emergerebbero in qualsiasi contesto. E lavorare – come hanno fatto in Germania all’indomani dei Mondiali del 2006, ad esempio – per invertire la tendenza senza addossare la colpa a una presunta “invasione straniera”.
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