Voci di corridoio a Milanello raccontano come fin dal primo giorno d’allenamento Andriy Shevchenko abbia impressionato tutti. Dopo aver svolto due ore di seduta ed essere stato il migliore nei test fisici, spiazzò staff tecnico e compagni chiedendo “Quando inizia l’allenamento vero?”. In realtà l’allenamento era finito ma lui fece un lavoro supplementare di altre due ore, abituato com’era dalla preparazione effettuata per anni per entrare nei corpi speciali.
Sempre lui, il Pallone d’Oro 2004, ricorda spesso l’allenamento base della Dinamo Kiev, la squadra che lo lanciò nel calcio che conta. Si chiamava “salita della morte” e consisteva nel fare ripetute su una pendenza del 18%. Se i giocatori non vomitavano avevano il posto fisso in squadra e Andriy non ha mai vomitato. Una forza innata e superiore alla media data dal suo mentore e secondo padre Valeri Lobanovsky. È lui il creatore di Sheva e sempre lui il visionario del calcio, il Maestro che voleva plasmare la squadra perfetta. Ma soprattutto lui è uno dei più grandi allenatori nella storia del calcio.
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Il sogno di Lobanovsky
Era un ex giocatore della Dinamo Kiev e con i suoi 190 cm votati ad offendere e un carattere complicato che anche lui amava ricordare da allenatore (spesso diceva “Io non mi sarei mai allenato, troppo indisciplinato ed anarchico), vinse uno scudetto e una Coppa Nazionale. Andrà via per dissidi con il tecnico Maslov ritenuto troppo duro negli allenamenti. Lascia il calcio nel 1968 e subito dopo inizia la sua carriera da allenatore del Dnipro adattando le metodologie di Maslov alle sue idee. Nel frattempo però non si era fermato, anzi. Dopo aver conseguito la laurea in ingegneria meccanica divenne colonnello, fondamentale per avere credibilità nell’epoca sovietica, ma soprattutto iniziò a coltivare il suo sogno: esportare il calcio sovietico, mettendo la squadra prima del singolo.
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Tutto è un numero
È la massima de “Il Colonnello”. La ripeteva alla nausea, ossessivamente e la mise in pratica chiamando nel suo staff il professore Anatoly Zelentsov, per la serie “come spaccare il mondo del calcio e guardare al futuro”. Insieme pretendono e ottengono un computer che all’epoca probabilmente era un oggetto sconosciuto ai più (si vociferava che il KGB lo avesse messo sotto controllo). Portarono il marchingegno nel campo di allenamento per registrare ogni singolo movimento dei giocatori. Divisero il campo in 9 aree e iniziarono ad elaborare il concetto di squadra perfetta con giocatori perfetti in grado di poter svolgere qualsiasi ruolo.
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Anzi no, al bando i ruoli. Nella mente di Lobanovsky non è più possibile parlare di difensori, attaccanti e centrocampisti. Al loro posto ci sono giocatori “universali” in grado di esprimersi in ogni parte del campo, in ogni posizione e situazione tattica, in ogni ruolo. Nessuno deve “solo” attaccare o “solo” difendere. Esistono i difendenti e gli aggressori ma devono essere comunicanti tra loro.
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Primo ciclo alla Dinamo Kiev
Nel 1973 approda alla Dinamo Kiev e porta tutto il laboratorio aggiungendo un ulteriore tassello, Petrowski allenatore di atletica leggera. Le metodologie di allenamento erano davvero all’avanguardia: dieta personalizzata per ogni giocatore, misurazione dei passi e delle zone del campo coperte da ogni calciatore, preparazione tattica e atletica esasperata. La squadra di Lobanovsky fin dalle prime partite appare superiore alla media. Sfoggia una forza innata e una capacità di recupero palla al di fuori da ogni logica. I giocatori doppiano, triplicano gli avversari, conquistano palla e si lanciano negli spazi. Sembra nascere una nuova era con slanci futuristici mai visti finora.
La Dinamo vince subito campionato sovietico e coppa Nazionale ma soprattutto al primo anno della gestione Lobanovsky si impone anche in Europa. Il 14 maggio 1975 a Basilea la creatura del colonnello vince la Coppa delle Coppe strapazzando con una doppietta di Onishenko e un gol di Blokhin il Ferencvaros. E’ il sigillo che fa conoscere a tutto il mondo la Dinamo, l’immagine di una squadra schiacciasassi che sembra preannunciare un dominio interminabile dopo una cavalcata che ha distrutto le speranze e i sogni di gloria di CSKA, Eintracht Francoforte, Bursaspor e PSV Eindhoven e che ha portato nell’Olimpo i ragazzi terribili della Dinamo.
Tra questi c’è Blokhin che nello stesso anno vincerà il Pallone d’Oro grazie anche al bis concesso in Supercoppa Europea contro il Bayern Monaco di capitan Beckenbauer, 1-0 in Germania e 2-0 in casa. L’anno dopo si chiude con l’investitura a ct dell’Urss. Ai quarti degli Europei si conclude la sua avventura (eliminata dalla Cecoslovacchia) ma continuando a vincere in Patria il Colonello studia la nascita di un nuovo ciclo vincente.
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Tutti i giocatori sono in grado di ricoprire più ruoli e disorientare ogni tipo di avversario. Prima lo attirano, poi lo calpestano e infine lo stritolano. A farne le spese prima degli spagnoli di Aragones sono Utrecht, i rumeni dell’ Universitatea Craiova, il Rapid Vienna e il Dukla Praga. La Dinamo è un rullo compressore anche grazie ad allenamenti sempre più particolari. Tra questi l’allenamento a torso nudo durante le prime ore del mattino, a Kiev!
Oppure le partitelle cinque contro cinque bendati per oliare sempre di più i meccanismi. “In campo le sole improvvisazioni che tollero sono quelle che mettono in difficoltà gli avversari” continuerà a ripetere e la Dinamo è la proiezione dei suoi pensieri: pratica, devastante, meccanica. Anche in questa occasione arriva, un po’ a sorpresa, il Pallone d’Oro per un suo giocatore, Igor Bjelanov.
L’errore imperdonabile
Poche settimane dopo il trionfo a Lione, il Colonnello viene chiamato di nuovo per guidare la rappresentativa dell’Urss ai Mondiali 1986. Otto undicesimi di quella squadra è marchiata Dinamo e all’esordio travolge per sei a zero l’Ungheria. La perfezione diranno in tanti, il calcio del Duemila oserà qualcuno. Ma agli ottavi il giocattolo si rompe e il Belgio la spunta con due gol in fuorigioco nella partita più bella della competizione. Ma Lobanovsky e l’intero URSS meditano la vendetta all’Europeo.
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Due anni dopo la corazzata rossa spazza via l’Italia di Vicini e arriva in finale contro l’Olanda di Rinus Michels. Paradossalmente due invenzioni di Gullit e Van Basten (uno dei gol più belli nella storia del calcio) condannano la squadra robotica; sopraffatta anche dall’eccessiva sicurezza del Colonnello che schiera Aleinikov (classico regista) come difensore centrale. Una sconfitta dei suoi dogmi.
Lobanovsky maestro e guida
Ma la forza del Colonnello, paradossalmente, non era sul campo da gioco (anche se il suo modello a tutto campo di continuo movimento senza palla è paragonabile al Barcellona di Guardiola) ma nel rapporto con i propri giocatori. Burbero, freddo, implacabile ma in grado ascoltare e parlare ai suoi pupilli. Era rigido e riflessivo ma riusciva allo stesso a proteggerli ed educarli. Moltissimi si ritrovarono senza la sua guida e fallirono sia come giocatori che come uomini. Zavarov, considerato il nuovo Platini, finì in terapia psichiatrica, Dassaev diventò alcolizzato, Mihailichenko non rese in Europa, Belanov fu arrestato per taccheggio.
Shevchenko riuscì a diventare uno dei più forti attaccanti della sua generazione solo dover aver detto addio al tabacco su pressione del Colonnello che gli iniettò una soluzione di nicotina provocandogli una sindrome da rigetto. “Noi gli davamo massima fiducia e lui ci restituiva amore infinito” dirà l’ex rossonero dopo la sua scomparsa. Il mister era schivo e riservato e spesso non pranzava per concedersi unicamente la cena, concludendola con un assaggio di liquore, ma era sempre vigile sui suoi calciatori. Niente alcool, anzi una volta vedendone uno ubriaco l’obbligò a fare il custode del campo per ben 5 mesi. Al termine ne ordinò la cessione ad un club minore.
Colonnello nella vita e sul campo, futuristico e all’avanguardia probabilmente aveva idealizzato e lavorato troppo presto all’idea di calcio “computerizzato”.
Lobanovsky eroe d’Ucraina
Dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica emigrò negli Emirati ed in Kuwait a “fare cassa”, ma lui era il colonnello della Dinamo e tornò presto a Kiev. Nel terzo regno puntò tutto sul pressing totale per chiudere facilmente le partite. Due esterni che lavoravano come terzini e attaccanti ma soprattutto “il diamante” lì davanti. Velocissimo e tecnico: Shevchenko. Vinse quattro campionati consecutivi e lasciò questo mondo lavorando su un campo da calcio, probabilmente come desiderava. Restò in panchina sino al 2002, anno della sua morte. Morì il 13 maggio colpito da un ictus.
Nella finale di Champions League 2002, disputatasi pochi giorni dopo, venne osservato un minuto di silenzio in suo onore. Nello stesso anno Lobanovski fu insignito del titolo diEroe d’Ucraina, la più alta onorificenza della nazione. Anche lo stadio della Dinamo Kiev è stato nominato Stadio Lobanovski in suo onore ed è stata eretta una statua fuori l’impianto.
Nel 2003 Shevchenko, dopo aver vinto la UEFA Champions League con il Milan, volò a Kiev per omaggiare il suo maestro Lobanovski deponendo sulla sua tomba la propria medaglia. Con lui se ne andò la visione del calcio che rese grande la Dinamo Kiev. Una visione che riusciva a produrre il massimo da giocatori non eccelsi e che non riuscì però a coronare il suo sogno con storica vittoria finale.
Signor Lobanovsky, cosa rappresenta il calcio per lei?
‘La professione e la vita‘.
Non c’è spazio per qualche altra cosa?
‘Per il momento c’è solo posto per il calcio‘
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